Così la ‘ndrangheta voleva ammazzare Salvatore Di Landro

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Il gip ammette “il carattere doloso dell’intimidazione” al procuratore generale reggino ripetutamente nel mirino della criminalità organizzata ma deve disporre l’archiviazione del fascicolo. 

La chiamarono strategia della tensione.  La criminalità organizzata agì in effetti per destabilizzare e colpire le istituzioni, a prescindere dagli obiettivi. Erano i primi giorni del 2010. Quando il procuratore generale Salvatore Di Landro ed altri magistrati in servizio a Reggio divennero oggetto di episodi inquietanti. Si partì con l’intimidazione a Giuseppe Lombardo: per lui una busta contenente una cartuccia e annessa minaccia di morte, poi venne il momento di Antonio De Bernardo e del bazooka a Giuseppe Pignatone. L’episodio più eclatante il 3 gennaio, quando esplose una bomba davanti alla Procura generale. Persino la visita del Presidente della Repubblica venne segnata dal ritrovamento di una macchina carica di armi. Alla fine di Agosto addirittura un ordigno devastava l’ingresso del palazzo nel quale abitava proprio Salvatore Di Landro. Nel frattempo erano stati ritrovati tre bulloni allentati alla ruota anteriore della sua auto. Eppure tutto stava per finire nel dimenticatoio se il procuratore generale non si fosse opposto all’archiviazione  del fascicolo. Una “resistenza” condivisa dal gip di Catanzaro che ha ammesso “la natura dolosa di quell’azione”. Ma dopo averlo constatato il giudice non ha potuto fare altro che disporre l’archiviazione del fascicolo. “Gli elementi acquisiti – è stato scritto – non consentono di individuare gli autori del misfatto”.

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